La nuova sentenza della Corte di Cassazione
Le Sezioni Unite della Cassazione lo scorso 11 luglio con sentenza n.18287 hanno apportato una nuova interpretazione al calcolo dell’assegno divorzile, corrisposto da uno dei due ex coniugi con la fine del vincolo matrimoniale e computato sulla base di alcuni parametri che hanno fatto da sempre riferimento ad una giurisprudenza ormai cristallizzata, perlomeno fino ad oggi.
Il cammino giurisprudenziale volto ad approdare in questa nuova visione è foriero di pronunce, frutto soprattutto dell’evoluzione sociale che ha il suo specchio principale nel diritto di famiglia, quindi nel matrimonio e i suoi postumi.
Sulla base dell’art. 5 l.898/1970, al fine del calcolo nell’ an e nel quantum dell’assegno, il giudice doveva tenere conto del tenore di vita che il coniuge aveva vantato durante il matrimonio, sulla base dei principi di autosufficienza economica e indipendenza.
E proprio sul tenore di vita e l’autosufficienza che alla Suprema Corte è stato richiesto di porre l’attenzione: nel 2015 con sentenza n.11 la Corte statuiva quanto il tenore di vita fosse un criterio legittimo da sempre utilizzato nella prassi dell’applicazione dell’assegno. Al contrario, per la ricorrente della sentenza n.18287 il criterio di autosufficienza economica è portatore di gravi ingiustizie sostanziali “in particolare per i matrimoni di lunga durata ove il coniuge più debole che abbia rinunciato alle proprie aspettative professionali per assolvere agli impegni familiari improvvisamente si trova costretto a mutare radicalmente la propria conduzione di vita.”
Su questi punti verte la decisione sviluppata dalla Corte, che prende le mosse dal ricorso di una donna che si vedeva negata dalla Corte d’Appello l’assegno divorzile di 4.000 €, sulla base di una valutazione incentrata sulle sue capacità di autosufficienza economica per via della professione svolta e per il cospicuo patrimonio immobiliare.
La decisione parte da un excursus storico-giurisprudenziale che pone le radici nella sentenza della Suprema Corte del 1974, in cui al giudice nel computo dell’assegno erano riconosciuti ampi poteri discrezionali per giungere ad un risultato finale basato sulle triade assistenza-compensazione-risarcimento verso l’altro coniuge.
Questo criterio per quanto fosse consolidato in realtà non teneva conto della cessazione del vincolo, per cui la Corte un anno dopo stabilì che la natura alimentare doveva essere esclusa, equiparando i due coniugi a due estranei che non potevano vantare tali diritti l’uno sull’altro.
Negli anni ’80 la visione muta nuovamente, ponendo questa volta l’attenzione sull’art. 29 Cost. sulla parità sostanziale dei coniugi, si arrivò a rafforzare la natura compensativa dell’assegno per via delle rinunce che nel caso concreto operava un coniuge (quasi sempre la donna) ad una propria carriera professionale “sacrificandola” per i bisogni della famiglia, facendo venir meno la sua competitività nel mercato del lavoro.
Pronunce del genere, a ben vedere, si prestarono subito alla critica da parte della dottrina contraria a questo eccessivo arbitrio del giudice che era necessario data l’assenza di criteri uniformi, rimettendo il calcolo dell’assegno alla discrezionalità del giudice che giustificava ex post con i criteri che meglio potevano essere adattati al caso concreto.
Arriviamo agli anni ’90. Qui la pronuncia n.1564/1990 che fece “giurisprudenza”: il coniuge doveva somministrare un assegno quando l’altro non aveva i mezzi adeguati e non poteva procurarseli per ragioni oggettive, per consentirgli un tenore di vita analogo a quello mantenuto durante il matrimonio.
Tale criterio è stato quello applicato dai giudici fino al momento che segna l’inizio del lento scalfirsi di una visione basata sul tenore di vita, caratterizzata da una necessaria astrattezza che non teneva conto dell’ autoresponsabilità e delle scelte personali che assumono i coniugi durante il matrimonio, tutelate dall’art. 2 e 3 Cost. Questo quanto detto dalla sentenza n. 11540/2017, e dalla quale la recente pronuncia trae le proprie conclusioni ponendosi in posizione intermedia con quella del 1990.
Per cui con la sentenza n.18287 del 2018 il riconoscimento dei mezzi inadeguati di sussistenza da parte di uno dei due coniugi deve far riferimento alle scelte prese nelle relazioni endofamiliari, come frutto della loro capacità di autodeterminarsi. Il giudizio sarà perciò incentrato non sulla continuazione di un vincolo ormai sciolto, ma sulle capacità di sussistenza economiche influenzate dalle scelte di vita familiari “delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto“.
Se l’esito sarà positivo, l’incapacità reddituale di uno dei due ex coniugi è da collocarsi nella scelta di aver avuto un ruolo prevalente all’interno del mantenimento familiare e quindi di aver provveduto alla formazione del patrimonio comune.
Infine, “all’assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa”.
La Corte ha perciò accolto il ricorso della donna ribaltando il criterio del tenore di vita che ne aveva escluso l’assegno, e lo riconosce invece sul nuovo criterio che tiene conto del contributo alla vita familiare e alla creazione del patrimonio del coniuge, a discapito del più rigido criterio adottato in precedenza.
Una pronuncia attesa, e che certamente farà giurisprudenza.
Filomena Grande
Area Giustizia – UMG Catanzaro